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Aziende islandesi sul podio per migliore reputazione. Italia, 32esima

Il Paese in cui le imprese possono vantare la migliore reputazione è l’Islanda. Sul secondo gradino del podio la Norvegia, seguita da Svezia, Nuova Zelanda e Svizzera. Dei 35 Paesi analizzati da Zwan, azienda specializzata in corporate reputation, l’Italia occupa il quart’ultimo posto della classifica. Almeno, durante il triennio 2017-2020. Per stabilire il ranking Zwan ha utilizzato l’algoritmo del Reputation Rating, che certifica una serie di parametri attraverso la tecnologia blockchain. Di fatto lo studio ha preso in esame i diversi aspetti che compongono la reputazione, intesa quindi non solo come immagine del brand percepita dagli stakeholder, incrociando tra loro caratteristiche quali work-life balance, qualità dell’ambiente di lavoro, gender gap, culture & diversity, sicurezza sul lavoro & cyber-security, qualità percepita dei prodotti Made-in, reputazione (più strettamente connessa all’immagine), gestione delle carriere, innovazione e stipendi medi.

Italia fanalino di coda per gestione delle carriere e della diversità, e stipendi medi

Dopo la Svizzera (5°) dal 6° posto in avanti la classifica di Zwan prosegue con le nazioni già note per l’alta innovazione e qualità della vita, ovvero, Finlandia, Danimarca, Germania, Olanda, e Canada. L’analisi di Zwan sembra provare quindi una relazione tra qualità della vita, digitalizzazione e reputazione delle Imprese. E se dallo studio non emergono risultati positivi per le imprese del nostro Paese va un po’ meglio per la Gran Bretagna, posizionata al 12° posto, ma non benissimo per gli Stati Uniti, fermi al 21° posto della classifica.

Al 7° posto per la percezione della qualità dei prodotti Made-in Italy

“L’Italia, purtroppo, è risultata essere quasi fanalino di coda al 32° posto, registrando performance negative in gestione delle carriere, stipendi medi e gestione delle diversità”, spiega Joe Casini, cofondatore di Reputation Rating.

L’Italia però registra anche qualche parametro positivo: il nostro Paese si piazza infatti al 7° posto per la percezione della qualità dei prodotti Made-in Italy.

“C’è molto da lavorare anche per quanto concerne la qualità dell’ambiente di lavoro, dove l’Italia ricopre il 28° posto – aggiunge Casini -. A stupire, però, è la posizione degli Stati Uniti, solo 21°, principalmente a causa del Gender Gap e del Work-life balance, asset che hanno controbilanciato di molto in negativo le performance positive riscontrate per le altre caratteristiche”.

Le imprese devono adeguarsi: la reputazione è ormai un capitale imprescindibile

Secondo Davide Ippolito, ceo di Zwan, cofondatore di Reputation Rating, e autore del libro Reputazione Capitale del Terzo Millennio, “le imprese devono adeguarsi ai nuovi criteri di sviluppo, che vedono la reputazione come capitale imprescindibile del Terzo Millennio. Per un profitto a lungo termine bisogna guardare oltre il profitto e avere comportamenti sostenibili e accettabili. Servono perciò regole più severe affinché anche il nostro Paese si adegui agli standard delle altre potenze mondiali”. Reputation Rating è un progetto indipendente, superpartes e brevettato, che si basa sulla comparazione di certificati pubblici e ricerche statistiche ufficiali (Bloomberg, Ocse, Oecd, ILO, e tanti altri enti e istituzioni mondiali).

A cosa sono disposti a rinunciare gli italiani per il clima?

A cosa è più facile rinunciare per combattere i cambiamenti climatici? Nel complesso, il 34% degli italiani afferma di mettere in atto correttivi radicali al proprio stile di vita per contrastare i cambiamenti climatici, una percentuale superiore di quindici punti alla media europea (19%). I genitori di ragazzi minorenni (39%) e gli abitanti delle città (35%) sono particolarmente rappresentati in questo gruppo. Ma se rinunciare ai voli aerei è la scelta che pesa meno per il 38% degli italiani quella che costa di più al 46% è rinunciare all’uso del proprio mezzo. Sono alcuni risultati della seconda pubblicazione per il biennio 2020-2021 diffusa dalla Banca europea per gli investimenti (Bei).

Viaggiare, l’impatto della pandemia

Il 33% degli italiani afferma anche che una volta superate le restrizioni di viaggio non prenderà l’aereo per considerazioni legate ai cambiamenti climatici, e il 43% intende trascorrere le vacanze in Italia o in un Paese limitrofo per ridurre al minimo le emissioni di carbonio. Solo per il 12% le abitudini di viaggio in aereo resteranno invariate rispetto a quelle pre-Covid, riporta Adnkronos. Alla domanda sull’uso dei trasporti pubblici al tempo del Covid, il 77% afferma di essere meno disposto a farne uso poiché teme per le conseguenze sulla propria salute. Per il 66% poi la paura di un contagio preoccupa più dell’impatto dei cambiamenti climatici sul lungo termine.

Le differenze tra europei, americani e cinesi

Indipendentemente dal Paese di residenza, gli intervistati affermano che la scelta meno pesante per contrastare i cambiamenti climatici sarebbe rinunciare agli spostamenti in aereo (40% europei, 38% americani, 43% cinesi). Anche le risposte in merito alle preoccupazioni sulla salute hanno un andamento trasversale: il 75% degli americani, il 71% dei cinesi e il 67% degli europei sono meno inclini a utilizzare i trasporti pubblici. Sebbene per la maggior parte degli intervistati prevalga il timore di contrarre il coronavirus rispetto all’impatto del proprio stile di vita sui cambiamenti climatici (79% cinesi, 67% americani, 58% europei), i cittadini credono ancora che le scelte e le azioni dei singoli possano contribuire alla lotta contro i cambiamenti climatici. È il parere espresso dall’82 % degli italiani. Una percentuale dieci punti superiore alla media europea e a quella americana (entrambe al 72%), e di due punti inferiore alla media cinese (84%).

Per i giovani il proprio comportamento può fare la differenza

In generale, ma soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, i giovani sono notevolmente più propensi a credere che il proprio comportamento possa fare la differenza rispetto agli intervistati più anziani. Un divario che non è invece rilevato in Cina. L’indagine mostra che nella Ue il 77% dei cittadini compresi nella fascia di età 15-29 anni ritiene che il proprio comportamento possa fare la differenza, rispetto al 64% di quelli di età pari, o superiore, a 65 anni Negli Stati Uniti, le percentuali sono rispettivamente del 75% per la fascia di età 15-29 anni, e del 56% per la fascia 65 anni o più.

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